Rispetto delle altezze minime nella ricostruzione degli edifici

Con il quesito in oggetto si chiede un parere in merito al corretto inquadramento giuridico delle fattispecie in cui, nel caso di demolizione e ricostruzione di edifici danneggiati dal sisma, lo stato di progetto preveda altezze di interpiano maggiori rispetto allo stato di fatto ante sisma.

In particolare, si richiama la disciplina normativa secondo cui  “con riferimento alle altezze minime il decreto ministeriale di riferimento (5 luglio 1975) prevede il limite di 2,70 metri. Per i comuni montani al di sopra di 1000 m. sul livello del mare è consentito ridurre tale limite a m.2,55 (Amatrice e Accumoli)”.

Ciò premesso, vengono formulati i seguenti quesiti.

1.In caso di demolizione e ricostruzione di un edificio sito in comune montano che aveva un’altezza di 2,55, si può giustificare l’aumento di volume ricostruendo il piano con altezze di 2,70 riconducendo tale decisione a motivi igienico sanitari considerato che non c’è nessun obbligo (potendo ricostruire com’era in precedenza)?

  1. La decisione di autorizzare un intervento con aumento dell’altezza a 2,70, per i motivi anzidetti, può essere causa di lesione di diritti di terzi (i frontisti) che vedono ridotta la propria visuale?

3.Ovvero rientra nel diritto di chi ricostruisce riedificare con le altezze ordinarie e non con le deroghe alle altezze previste per i comuni montani?”

  1. Prevedere un aumento delle altezze interpiano (pari H = 2,70) nello stato di progetto rispetto ad altezze interpiano inferiori presenti nello stato di fatto legittimato comportano un aumento globale dell’altezza massima dell’edificio demolito è da considerarsi un aumento di volumetria? ovvero può essere giustificato dalla necessità di adeguare sismicamente e sotto il profilo igienico sanitario gli edifici? Ed in quest’ultimo caso tale adeguamento prescinde dalla circostanza che gli edifici si trovino in centro storico?”.

I quesiti illustrati meritano una risposta chiara e definitiva su una questione già con chiarezza disciplinata dalla legge statale, dalle ordinanze commissariali e da risposte a quesiti date in precedenti occasioni.

Come noto, l’articolo 1 del decreto del Ministero della Sanità del 5 luglio 1975, recante “Modificazioni alle istruzioni ministeriali 20 giugno 1896 relativamente all’altezza minima ed ai requisiti igienico-sanitari principali dei locali d’abitazione”, prescrive che per i locali adibiti ad abitazione l’altezza minima interna utile sia fissata in metri 2.70 riducibili a metri 2.40 per bagni, ripostigli, gabinetti, corridoi e disimpegni in genere (primo comma). Viene, inoltre, ulteriormente previsto, ai sensi del secondo comma , che nei comuni montani al di sopra di 1000 metri sul livello del mare, può essere consentita una riduzione dell’altezza minima dei locali abitabili a metri 2.55, tenuto conto delle condizioni climatiche locali e della tipologia di edilizia locale.

Il decreto n.76/2020, all’articolo 10, fornisce un’ interpretazione autentica del D.M. 5 luglio 1975 e, in particolare, il secondo comma stabilisce che: “Nelle more dell’approvazione  del  decreto  del  Ministro  della salute  di  cui  all’articolo  20,  comma  1-bis,  del  decreto   del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380, le disposizioni di cui al decreto del Ministro per la sanità 5 luglio 1975,  pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 190 del 18 luglio 1975,  si  interpretano nel senso che i requisiti relativi all’altezza minima e  i  requisiti igienico-sanitari dei  locali  di  abitazione  ivi  previsti  non  si considerano riferiti agli immobili che siano stati  realizzati  prima della data di entrata in vigore del  medesimo  decreto  e  che  siano ubicati nelle zone A o B, di cui al  decreto  ministeriale  2  aprile 1968, n. 1444,  o  in  zone  a  queste  assimilabili,  in  base  alla normativa regionale e ai piani urbanistici comunali. Ai fini della presentazione e del rilascio dei titoli abilitativi per il recupero e la qualificazione edilizia dei medesimi immobili e della segnalazione certificata della loro agibilità, si fa riferimento alle dimensioni legittimamente preesistenti”.

Questo chiarimento risulta del tutto ragionevole poiché, diversamente, si applicherebbe retroattivamente la norma che prevede l’altezza minima dei vani a m. 2.70 con l’effetto di determinare una illegittimità di tutto il patrimonio edilizio preesistente o, peggio, un obbligo generalizzato di adeguamento di tutti gli edifici costruiti anteriormente al 5 settembre 1975.

Dunque, il sopracitato decreto legge n.76/2020 è chiaro nel disporre che le disposizioni di cui al D.M. 5 luglio 1975 si interpretano nel senso che i requisiti igienico-sanitario e quelli relativi all’altezza minima dei locali ad uso abitativo non sono da considerare riferiti agli immobili realizzati prima dell’entrata in vigore del decreto del 1975 e ubicati nelle zone A o B ai sensi del D.M. n.1444/1968 ovvero in zone a queste assimilabili in base alla normativa regionale e ai piani urbanistici comunali.

Tuttavia, per gli interventi che prevedono la ricostruzione ex novo allo stato attuale, la regola deve ritenersi quella dell’altezza minima di metri 2.70 a meno che il comune non ritenga di esercitare la facoltà di deroga, con delibera consiliare, per motivate ragioni di natura architettonica e morfologica dei tessuti urbani o altre ragioni.

Ai sensi del terzo comma del citato art. 1, le altezze minime previste nel primo e secondo comma dell’articolo 1 del D.M. 5 luglio 1975 possono, in altri termini, essere derogate entro i limiti già esistenti e documentati, per i locali di abitazione di edifici situati in ambito di comunità montane sottoposti ad interventi di recupero edilizio e di miglioramento delle caratteristiche igienico-sanitarie, quando l’edificio presenti caratteristiche tipologiche specifiche del luogo che siano meritevoli di conservazione ed a condizione che la richiesta di deroga sia accompagnata da un progetto di ristrutturazione con soluzioni alternative, atte a garantire, comunque, idonee condizioni igienico-sanitarie dell’alloggio in relazione al numero degli occupanti (ottenibile ad esempio, attraverso un’adeguata ventilazione naturale favorita dalla dimensione e tipologia delle finestre, ovvero dai riscontri d’aria trasversali..).

Pertanto, è la norma primaria a stabilire in via generale 2.70 metri di altezza per i locali ad uso abitativo ed è la medesima norma a consentire, altresì, che il comune, nell’esercizio delle proprie facoltà, con deliberazione del consiglio comunale possa motivatamente disporre di ricostruire in deroga, ad esempio anche solo per alcuni tessuti urbani di particolare pregio, al fine di garantire in tal senso l’allineamento della linea di gronda, ove ne ricorrano  i richiamati presupposti di legge.

In ogni caso, giova evidenziare che, in caso di demolizione  e ricostruzione  di un edificio sito in comune montano che aveva un’altezza di metri 2.55 nello stato di fatto legittimato, la ricostruzione a metri 2.70, con la conseguente variazione di cubatura che ne deriverebbe, non costituisce un incremento di volumetria, e ciò ai sensi e per gli effetti di quanto previsto dall’art. 5, secondo e terzo comma dell’ordinanza 107 del 22 agosto 2020 nonché dall’art.8, quarto comma, dell’ordinanza n.100/2020. L’intervento si realizza con S.C.I.A edilizia (ove conforme) e non necessita, in via ordinaria, dell’autorizzazione paesaggistica.

 Riguardo al profilo paesaggistico, deve infatti ritenersi che l’innalzamento a un’altezza interpiano di metri 2,70 possa senz’altro rientrare nell’ambito delle “innovazioni necessarie per l’adeguamento alla normativa antisismica e di sicurezza degli impianti tecnologici” consentite dalla voce A.20 dell’allegato “A” al d.P.R. n. 31 del 2017 nel caso degli interventi di fedele ricostruzione di edifici, manufatti e impianti tecnologici che in conseguenza di calamità naturali o catastrofi risultino in tutto o in parte crollati o demoliti, e che sia pertanto esonerata dalla previa autorizzazione paesaggistica, salvo però che non si tratti di un edificio facente parte del costruito storico del centro urbano (già) inserito in aggregati o insiemi di fabbricati costituenti una quinta architettonica omogenea e unitaria, sottoposta come tale a vincolo paesaggistico provvedimentale, ai sensi dell’attuale art. 136, comma 1, lettera c) del codice dei beni culturali e del paesaggio, come complesso di cose immobili che compongono un caratteristico aspetto avente valore estetico e tradizionale, inclusi i centri ed i nuclei storici, in specie ove risulti dalla relazione storico-architettonica posta a corredo del vincolo una considerazione espressa di tale caratteristica tipologica, architettonica e costruttiva, come caratterizzante quel complesso di immobili e dunque costitutiva delle ragioni giustificatrici del vincolo stesso.

Quindi, in via conclusiva, ed auspicabilmente anche definitiva poiché ogni ritardo nell’interpretazione e nell’attuazione determina un ingiustificato rallentamento della ricostruzione e dà luogo a responsabilità del RUP:

  1. la ricostruzione previa totale demolizione ha in via ordinaria, come da legge, la quota di altezza minima dei vani di metri 2.70, salva diversa determinazione da assumersi in deroga da parte del consiglio comunale con la previsione di un’altezza minima di metri 2.55 nei comuni montani;
  2. il rilascio del titolo edilizio, anche nel caso di s.c.i.a., fa sempre salvi i diritti dei terzi, ai sensi dell’ art.11, terzo comma, del D.P.R. 6 giugno 2001, n.380 sicché il problema non è di competenza del comune ( anche se, in via generale, un incremento dell’ altezza di poche decine di centimetri non dovrebbe ingenerare contenziosi);
  3. chi ricostruisce deve rispettare l’altezza minima di m.2,70 a meno che il comune non preveda, con delibera consiliare trattandosi di norma regolamentare, la facoltà di deroga a m.2,55: decide la legge o il comune, non il privato;
  4. la ricostruzione con altezza dei vani a 2,70 non costituisce aumento di cubatura, neanche in centro storico, come sopra motivato;
  5. ove sussista un vincolo diretto provvedimentale, previa dichiarazione di “notevole interesse pubblico”, ai sensi dell’art. 136, lett. c) del decreto legislativo 42/2004, su “complessi di cose immobili che compongono un caratteristico aspetto avente valore estetico e tradizionale, inclusi i centri e i nuclei storici”, al fine di assicurare l’omogeneità degli interventi, il Comune può, sentita la Soprintendenza competente, deliberare il mantenimento dell’altezza preesistente o l’innalzamento alla quota di m. 2,70.

Per gli interventi di mero ripristino può valere, invece, il rispetto della quota dell’esistente, come precisato dalla legge.

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